venerdì 31 dicembre 2010

ANCORA COSTITUZIONE ITALIANA E DIRITTI

Oggi, 31 dicembre 2010, dopo un lungo periodo di silenzio, ricomincio a scrivere riferendomi in sintesi a quanto scrivevo su questo blog il 30 gennaio 2010.
Come recita l’art. 1 della nostra Costituzione, “l'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. La nostra patria non è fondata sugli interessi di manager corrotti e di politicanti, ma su diritti inalienabili, tra cui la formazione, su cittadini che partecipano e che costruiscono il loro futuro, sostenuti e garantiti dallo stato democratico. “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” Non certo come delega assoluta della propria intelligenza e della propria volontà ai ducetti di turno.
Quanti cittadini italiani si stanno impegnando a difendere i diritti proclamati nel 1948 dalla Carta costituzionale, dopo decenni di orribile sudditanza a poteri antidemocratici? Quanti sanno difendersi dal parassitismo politico che invoca tagli e sacrifici a danno dei più deboli (bambini e giovani che non possono accedere, come il popolo grasso, all’istruzione privata a pagamento), mentre non prevede alcun taglio agli sprechi della macchina della politica, della burocrazia, dell’impresa collusa? Quanti cittadini sanno ovunque riconoscere e condannare la propaganda populista? speriamo non siano pochi, a parte gli studenti universitari.
L’art.3 recita, parlando di libertà e uguaglianza “… È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Per essere liberi e uguali oggi è indispensabile sapere come rendere effettiva la rimozione degli ostacoli di cui sopra, rappresentati spesso dai nostri governanti,i quali sperano di ridurre così noi e i nostri figli a truppa di pecore impaurite e devote al capo, come effetti della crisi globale. Forse si dovrebbe riscrivere l’articolo aggiungendo a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” quelli "di ordine partitico, burocratico e collusivo” .
Nell’art.9 si legge: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.” Non c’è bisogno di ricorrere agli esempi più clamorosi di degrado e di abbandono dei siti archeologici o ambientali che la stampa, a degrado compiuto, deplora con accenti di lutto intollerabili. Dove erano le agenzie e i cronisti mentre si perpetrava tutto questo?
Se non c’è un’inversione di tendenza rispetto al “tutto e subito” dell’edonismo imperante e del feticismo degli oggetti, indotto da un mercato drogato attraverso spot che decretano l’audience dei programmi più imbecilli della programmazione televisiva pubblica e privata; se non si torna alle attività produttive non finalizzate allo spreco, al consumo irrazionale, all’inquinamento, ma vicine ai bisogni e alle vocazioni di ciascun territorio, cosa ci resta da sperare?
Domani parleremo di vocazioni del nostro territorio, quello jonico- etneo.
E di speranza.

martedì 1 giugno 2010

Meditando sulla Sicilia


Portella della Ginestra, 1 maggio 2010, 63mo anniversario della strage

Non ci chiediamo a chi risalga la responsabilità dell’eccidio, se a Giuliano, alla mafia, ai servizi segreti italoamericani. Riflettiamo invece sulla nostra realtà siciliana, mentre rievochiamo la giornata della memoria di quest’anno: c’erano molti anziani, tra cui aderenti alle associazioni ANPI, alcune del Nord Italia, molti residenti dei comuni limitrofi, alcuni forse parenti delle vittime; molti giovani, da ogni parte della Sicilia e famiglie intere, con bambini piccoli, anche neonati. I medaglieri delle vittime della Resistenza si mescolavano con le bandiere rosse dei movimenti dei lavoratori (poche quelle di partito) e con quelle gialle, di associazioni cattoliche. Nell’aria una festa composta, quasi pensosa.
Ci viene subito in mente che era festa anche il primo maggio del 1947, quando da Piana degli Albanesi, da S. Cipirello e da San Giuseppe Jato, circa tremila contadini si erano mossi verso Portella della Ginestra con donne e bambini per tentare l’occupazione delle terre incolte, molti a piedi, alcuni a cavallo su giumente e asini. Era festa di speranza in un giorno bellissimo della primavera siciliana. Sui prati a ridosso della montagna aspettavano l’inizio del discorso del segretario di una sezione socialista locale. Alle sue prime parole: «Cari compagni, siamo qui per festeggiare…» una raffica di armi da guerra, dalle prime balze dei monti Pizzuto e Cometa, massacrava 12 innocenti, uomini, donne, bambini: una di 12 anni, una di appena 8. Cinquantuno i feriti. Scriveva pochi anni dopo Carlo Levi: «Mafia e banditi non sono una stranezza, una malattia improvvisa e casuale, né derivata dai singoli caratteri di razza, ma essi stanno, per così dire, in un crepaccio, in una frattura di una terra senza continuità…stanno acquattati in una piega della storia che molte, troppe bandiere, cercano di nascondere. Mancava, è sempre mancata e ancora manca, una classe intermedia: ma tra il popolo contadino e lo “straniero” c’è sempre stato un abisso, un crepaccio, e qui sta acquattata la mafia» (da Le parole sono pietre 1955). Alla luce di quanto è accaduto dopo, dallo stillicidio degli assassini di attivisti o sindacalisti di sinistra, di cui hanno parlato con ampiezza di dettagli storici scrittori come Luigi Pirandello, Carlo Levi, Danilo Dolci, Vincenzo Consolo, fino alle più recenti vittime e martiri eccellenti, nonostante inchieste, arresti, pentiti e processi che durano all’infinito, il crepaccio sembra allargarsi. Questa, però, potrebbe essere solo una delle cause dell’immobilismo e dell’inefficienza dei governi siciliani che da sessant’anni generano disoccupazione, degrado economico e culturale; e forse si potrebbe mettere nel conto anche la strana riuscita di alcuni politici che dalla Sicilia affluiscono al governo nazionale. Ma per capire meglio la passività fatalistica che ancora affligge il popolo siciliano, i suoi intellettuali, i senza lavoro, coloro che cercano lavoro altrove, è indispensabile andare ancora più indietro nel tempo.
Non parliamo dei fatti di Alcara Li Fusi e di Bronte (1860), allorché l’esercito garibaldino stroncò i violenti moti di rivendicazione di terre da parte dei contadini per non compromettere l’unificazione della penisola inimicandosi i ceti dirigenti isolani; ricordiamo, invece, i Fasci siciliani del 1892, organizzazioni pacifiche che in tutta la Sicilia rivendicavano dai proprietari terrieri condizioni più giuste di lavoro e dai grossi industriali siciliani dello zolfo un trattamento più umano nelle miniere. Le manifestazioni pacifiche, fatta eccezione per la rivolta dei minatori di Aragona, dettate dal bisogno estremo, furono represse nel sangue dall’esercito italiano su ordine del ministro siciliano Francesco Crispi. Ancora una volta si mandava l’esercito italiano a sparare sugli inermi, per sedare le paure dell’elettorato, costituito dai grossi proprietari siciliani, solleciti dei loro interessi e preoccupati che il socialismo italiano appena nato, insieme al verbo di Carlo Marx, divenuto subito popolare tra i diseredati, ne fomentasse ulteriormente i fermenti di ribellione. Ma occorre dire, per ritornare al ‘crepaccio’ già da allora aperto, non solo tra il popolo contadino e quelli, tra i siciliani, che considerava di un’altra razza, ma tra la Sicilia e il Nord, che il Partito socialista italiano aveva preso in anticipo le distanze dal movimento dei Fasci siciliani. In quello che allora accadde si riscontra la stessa logica della strage di Portella; la differenza è soltanto che nel 1947 la repressione muoveva da più oscuri intrecci e coinvolgeva il nuovo stato italiano, da poco uscito dalla seconda guerra mondiale per l’intervento degli alleati e la lotta di Resistenza, di fronte a una Sicilia invasa sin dal 1943 dall’esercito alleato con mafiosi italo-americani al seguito e allettata da tentazioni separatiste. Ugualmente forti erano, però, interessi e paure: gli interessi di chi era uscito dalla guerra in grado di gestire capitali, non sempre puliti, e consensi, la paura che il rinnovato interesse per la rivoluzione proletaria, potesse destabilizzare l’assetto di potere cui aspiravano le nuove classi dirigenti, sancito poi dalle elezioni di aprile del 1948. I manuali di storia vi accennano appena, sicché le nuove generazioni, tenute all’oscuro e frastornate nei comportamenti e nei consumi dalla propaganda mediatica, stentano a capire le radici di tanta disaffezione degli adulti nei confronti dell’impegno civico e della difesa dei propri diritti. Molto probabilmente le ignoravano parecchi tra coloro che sfilavano il primo maggio 2010 con bandiere e medaglieri sulla strada percorsa dai braccianti nel 1947 e che si fermavano commossi nel sacrario sobriamente tracciato su quelle montagne tormentate dalla pietà dei conterranei dei contadini massacrati. Certo negli interventi dal palco, che invocavano fermamente il rispetto della Costituzione italiana, nata dal sangue di tanti morti e dal dolore di un’intera nazione, si coglieva una buona consapevolezza della realtà passata e presente. Kikki Ferrara, segretaria della camera del lavoro di Piana degli Albanesi affermava accorata: «Senza giovani questa terra non avrà futuro. Si sta impadronendo di molti la percezione che non c’è più niente da fare, e allora ci troviamo il politico a cui vendere la nostra libertà. Non limitiamoci alle celebrazioni; essere qui è importante, ma se non riusciamo a tenere vivi i valori che hanno animato gli eroi della resistenza e i nostri morti di Portella, loro saranno morti invano fisicamente e noi intellettualmente, moralmente, civilmente». Non si avvertiva acrimonia di partito o di schieramento ideologico, ma la rivendicazione, dai Poteri dello stato, della difesa e della promozione dei grandi diritti collettivi: democrazia, libertà, scuola, lavoro. Di canti, nel piazzale si sentiva, all’inizio, solo l’inno di Mameli cantato dai bambini delle scuole elementari. Sul prato i sorrisi degli altri bambini, alcuni extracomunitari con le mamme, e i loro sguardi intensi a una festa che non erano in grado di capire, ma che cominciava a farsi spazio tra i loro ricordi d’infanzia.

sabato 13 marzo 2010

Piccolo testamento

Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o di officina
che alimenti
chierico rosso o nero.
Solo quest'iride posso
lasciarti a testimonianza
di una fede che fu combattuta,
d'una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell'Hudson, della Senna
scuotendo l'ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora.
Non è un'eredità, un portafortuna
che può reggere all'urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l'estinzione.
Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio
non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.
(da "La bufera ed altro")

Il mio Montale, lo rileggo e me lo ritrovo accanto in ogni stagione del nostro presente. Dalla cenere della storia risorgono oppressioni sempre nuove e mettono a dura prova la fede nella vita e soprattutto lo sforzo di salvaguardare da ogni assalto subdolo la propria "decenza quotidiana", a costo di apparire rinunciatari o vili. Ma un poeta ha il suo fuoco, sa guardare nell'ora e nel poi con altri occhi. Lo inorgoglisce la piccola traccia che balugina nella sua parola come speranza: l'affida ai suoi "fedeli" come segno distintivo, symbolon, perchè ovunque possano ritrovarsi.

lunedì 22 febbraio 2010

Di un uomo in un fosso

Il raccontino si può leggere in parallelo con la parabola evangelica del buon samaritano, ma senza il finale animato da carità fraterna. Alla luce del contesto attuale vuole dire che siamo combinati piuttosto male, quanto ad aiuti esterni. Sembrano più caritatevoli i lumaconi e addirittura il rospo, a meno che non siano interpretati come arte da un esteta di dubbio gusto. Vuole dire, però, che dobbiamo/possiamo cavarcela da soli. Quanta ironia...

Di un uomo in un fosso. Parabola
Casa Penale di Turi, 17 giugno 1931
Carissima Julca,
ho ricevuto i tuoi foglietti, datati da mesi e giorni diversi. Le tue lettere mi hanno fatto ricordare le novelline di uno scrittore francese poco noto, Lucien Jean, credo, che era un piccolo impiegato in una amministrazione municipale di Parigi. La novella si intitola "Un uomo in un fosso". Cerco di ricordarmela. Un uomo aveva fortemente vissuto, una sera; forse aveva bevuto troppo, forse la vista continua di belle donne lo aveva un po' allucinato; uscito dal ritrovo, dopo aver camminato un po’ a zig-zag per la strada, cadde in un fosso. Era molto buio, il corpo gli si incastrò tra rupi e cespugli; era un po’ spaventato e non si mosse, per timore di precipitare ancora più in fondo. I cespugli si ricomposero su di lui,
i lumaconi gli strisciarono addosso inargentandolo (forse un rospo gli si posò sul cuore, per sentirne il palpito, e in realtà perché lo considerava ancora vivo). Passarono le ore; si avvicinò il mattino e i primi bagliori dell'alba; incominciò a passar gente. L'uomo si mise a gridare aiuto. Si avvicinò un signore occhialuto; era uno scienziato che ritornava a casa, dopo aver lavorato nel suo gabinetto sperimentale. – Che c'è?, domandò. - Vorrei uscire dal fosso, rispose
l'uomo. - Ah, ah! vorresti uscire dal fosso! E che ne sai tu della volontà, del libero arbitrio, del servo arbitrio? Vorresti, Vorresti! Sempre così l'ignoranza. Tu sai una cosa sola: che stavi in piedi per le leggi della statica e sei caduto per le leggi della cinematica. Che ignoranza, che ignoranza! - E si allontanò scrollando la testa tutto sdegnato. Si sentirono altri passi. Nuove invocazioni dell'uomo. Si avvicina un contadino, che portava al guinzaglio un maiale da vendere, e fumava la pipa: - Ah, ah! sei caduto nel fosso, eh! Ti sei ubriacato, ti sei divertito e sei caduto nel fosso. E perché non sei andato a dormire come ho fatto io? - E si allontanò, col passo ritmato dal grugnito del maiale. E poi passò un artista, che gemette perché l'uomo voleva uscire dal fosso: era così bello, tutto argentato dai lumaconi, con un nimbo di erbe e di fiori selvatici sotto il capo, era cosi patetico! - E passò un ministro di Dio, che si mise a imprecare contro la depravazione della città che si divertiva e dormiva mentre un fratello era caduto nel fosso, si esaltò e corse via per fare una terribile predica alla prossima messa. Cosi l'uomo rimaneva nel fosso, finché non si guardò intorno, vide con esattezza dove era caduto, si divincolò, si inarcò, fece leva con le braccia e le gambe, si rizzò in piedi, e uscì dal fosso con le sole sue forze. Non so se ti ho dato il gusto della novella, e se essa sia molto appropriata. Ma almeno in parte credo di sì: tu stessa mi scrivi che non dai ragione a nessuno dei due medici che hai consultato recentemente, e che se finora lasciavi decidere agli altri ora vuoi essere più forte. Non credo che ci sia neanche un po’ di disperazione in questi sentimenti: credo che siano molto assennati. Occorre bruciare tutto il passato, e ricostruire tutta una vita nuova: non bisogna lasciarsi schiacciare dalla vita vissuta finora, o almeno bisogna conservare solo ciò che fu costruttivo e anche bello. Bisogna uscire dal fosso e buttare via il rospo dal cuore.
Cara Julca, ti abbraccio teneramente, Antonio
da Lettere dal carcere di
Antonio Gramsci

giovedì 11 febbraio 2010


Gli agapanti
Non ci sono asfodeli, né viole, né giacinti:
come parlare ai morti?
I morti non sanno il linguaggio dei fiori:
per questo tacciono,
viaggiano e tacciono, patiscono
e tacciono
nel paese dei sogni, nel paese dei sogni.

Se mi metto a cantare, grido,
se grido
gli agapanti m'impongono silenzio
levando una manina di azzurro bambino d'Arabia
o le palme di un'oca nell'aria.

È gravoso, difficile. Non mi bastano i vivi,
primo, perché non parlano,
poi perché debbo interrogare i morti
se voglio andare avanti.
Altro modo non c'è.

Come mi prende sonno
i compagni recidono gli spaghi
d'argento e l'otre dei venti si vuota.
Lo riempio, si vuota, lo riempio, si vuota.
Mi desto
come l'orata che nuota
nei varchi della folgore.
Il vento, l'alluvione, i corpi umani,
gli agapanti confitti come frecce del fato
sulla terra assetata
squassati da spasmi
paiono caricati su un carro vetusto
traballante su strade rotte e selciati vecchi,
gli agapanti, asfodeli dei negri:
come imparare questa religione?

La prima cosa che Dio fece è l'amore
poi viene il sangue
e la sete del sangue
che il seme del corpo come un sale
pungola.
La prima cosa che Dio fece è un lungo viaggio:
e la casa in attesa
con il fumo celeste
con un cane invecchiato che aspetta,
per morire, il ritorno.
Ma bisogna che i morti mi insegnino il cammino.
Sono questi agapanti che li tengono muti
come il fondo del mare o l'acqua nel bicchiere.
E i compagni rimangono nella reggia di Circe
(caro Elpènore. Elpènore, mio povero imbecille!)
o - non li vedi? («Aiuto!») –
sopra la nera cresta di Psarà.

Ghiorghios Seferis (1900-1971). Nel 1942, console a Londra, dopo il crollo militare della Grecia nella II guerra mondiale, segue il governo greco in esilio nel Sud Africa. L'odissea personale di Seferis coincide con quella del suo popolo. L'ultimo verso allude alla sconfitta dei patrioti greci a Psarà da parte dell'Impero Ottomano nel 1824. Gli agapanti, esotici fiori originari dell'Africa meridionale, visti nella terra d'esilio diventano per lui simbolo della violenza bellica, ma anche di un mondo ostile e indifferente al dolore del poeta e di chi soffre per la libertà e per la giustizia. Anche per questo vorrebbe come Ulisse interrogare i morti.

E noi? Chi interrogheremo noi per ritrovare una patria, se i vivi non parlano, se abbiamo perso la strada verso casa?

venerdì 5 febbraio 2010

Approvata la riforma della scuola superiore

Ieri la riforma Gelmini è stata, come era prevedibile, approvata dal Consiglio dei ministri. Entrerà in vigore da quest'anno nelle prime classi del nuovo ordinamento. Non mi dilungo su quanto ho detto precedentemente della riforma, metto in atto invece una mia forma di resistenza civile. Al taglio delle ore, anche nelle classi non soggette alla riforma, all'affermazione del capo del Governo che i ragazzi di oggi non in grado di sopportare più ore di lavoro scolastico impegnativo (viziati o imbecilli,etimologicamente zoppicanti, senza bastone; e ha ragione, dato che anche il governo si impegna a privarli del sostegno indispensabile di una buona educazione)oppongo su questo blog una serie di interventi complessi, adatti a tanti studenti che conosco e rivolti a chiunque abbia il tempo e il desiderio di meditare/medicare (e perdonatemi la fissazione sull'etimologia, il fatto è che la parola è un condensato di storia e di civiltà, non è stata inventata, nè sempre utilizzata per ingannare o imbonire le masse).

Scrive Roberto Mussapi, (22 gennaio 2010, 20° anniversario della morte di Giorgio Caproni, da Avvenire)

Giorgio Caproni con forza straordinaria seppe fare musica dal dolore della seconda guerra mondiale. Fu proprio la guerra, fu il buio a plasmare il suono della sua magnifica poesia, quegli anni di buio e dolore ne resero aspra la voce, forgiandola a quello che sarebbe divenuto un continuo e cangiante concerto per violoncello (Bach), un suono d'arco tagliente e profondo nel silenzio. Musicale quanto altre mai, la voce di Caproni non ha nulla della musicalità di cifra meridionale, felice e splendida dei suoi contemporanei (Quasimodo, Gatto), che è per natura inscindibile dalla malinconia. In Caproni non esiste la sfera della melanconia, ma invece la realtà di un perennemente acceso e vibrante dolore. Bruciante, raschiante, la sua poesia. Con quella lingua unica ed aspra di dolcezze subliminali scrisse un grande libro incessante su quelli che Giovanni Raboni identificò essere i suoi tre temi: la città, il viaggio, la madre. Una triade conclusa e assoluta: la madre rimanda all'origine e alla donna, la città al luogo dove consistere, al teatro del mondo, il viaggio alla natura perennemente mobile, curiosa dell'uomo. In tal senso(…) il suo libro mito fu il magnifico Il passaggio di Enea, scritto fra il 1943 e il 1955, dove la figura di Enea, il viaggiatore esule, appare come ombra nella città di Genova, dove Caproni si trasferì a 10 anni e che amò sempre, prima fisicamente vivendoci, poi, trasferitosi a Roma, come immagine della felicità toccata e perduta. La funicolare, l'incanto di una città sempre in salita, l'ansia del viaggiatore che si muove tra le ombre del porto, creano uno dei massimi libri della poesia italiana del Novecento. Un libro assoluto del viaggio dell'uomo tra tempo e oltretempo, sospeso sulla funicolare come in bilico tra il cielo e la gravità, nelle nebbie di un porto in cui si celano partenze e attracchi.

III Epilogo da Il passaggio di Enea

Sentivo lo scricchiolio,
nel buio, delle mie scarpe:
sentivo quasi di talpe
seppellite un rodio
sul volto, ma sentivo
già prossimo ventilare
anche il respiro del mare.

Era una sera di tenebra,
mi pare a Pegli, o a Sestri.
Avevo lasciato Genova
a piedi, e freschi
nel sangue i miei rancori
bruciavano, come amori.

M'approssimavo al mare
sentendomi annientare
dal pigolio delle scarpe:
sentendo già di barche
al largo un odore
di catrame e di notte
sciacquante, ma anche
sentendo già al sole, rotte,
le mie costole, bianche.

Avevo raggiunto la rena,
ma senza avere più lena.
Forse era il peso nei panni,
dell' acqua dei miei anni.

sabato 30 gennaio 2010

INTERROGHIAMOCI

Cosa dire del progetto di riforma della scuola Secondaria superiore italiana in via di approvazione e di definizione, nei programmi e negli orari, ad opera della maggioranza di governo? Che dire della riduzione del monte ore nei vari ordini di scuola, con la pretesa di semplificare (?) il percorso dell'apprendimento "superiore" e l'inconfessato, ma evidente intento di "fare cassa", a discapito del funzionamento effettivo della scuola, della dignità dei docenti e della loro aspettativa di lavoro; a discapito dello spessore della formazione degli studenti, deprivati già da prima di risorse effettive, in termini di tempi, di metodi, di contenuti e strutture, e destinati, da qui a poco, a rassegnarsi per legge a un rapporto docenti/alunni di 1 a 30/35?
Cosa ne pensano i genitori?
Come mai tutto tace e non si organizza un vero e proprio movimento di resistenza civile, fermo e deciso nel rivendicare il rispetto della Costituzione?

Articolo 1- L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Costituzione italiana, fondata sul lavoro e i lavoratori, non i manager e i politicanti; su diritti inalienabili, tra cui la formazione, su cittadini che partecipano e che costruiscono il loro futuro, sostenuti e garantiti dallo stato democratico. Ma è ancora uno stato democratico il nostro?

I cittadini italiani, con lavoro o senza, sanno difendere i diritti proclamati sulla Carta costituzionale? Sanno difendersi dal parassitismo politico che invoca tagli e sacrifici a svantaggio dei più deboli (vedi i bambini e i giovani che non possono accedere all’istruzione privata a pagamento) e non programma tagli alle spese ingenti della macchina della politica? Sanno riconoscere e rifiutare la propaganda populista?

Articolo 3 -Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Dove sono oggi la pari dignità sociale e l’uguaglianza senza distinzioni di tutti i cittadini di fronte alla legge?
C’è qualcuno che sa come rendere effettiva la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, ostacoli oggi denunciati come effetto della crisi globale, per ridurre noi e i nostri figli al rango di pecore impaurite e devote ai capi? Forse si dovrebbe riformare questo articolo aggiungendo a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, “gli ostacoli di ordine politico e criminale” che limitando di fatto ecc.

Articolo 9 -La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Se si demolisce la scuola come centro e laboratorio di formazione (in essa ci sono ancora reali eccellenze, come ci sono guasti da controllare rigorosamente e da eliminare), quale “sviluppo della cultura, della ricerca”, quale “difesa dell’ambiente” si possono promuovere?
E per l’ambiente, se non c’è un’inversione di tendenza rispetto al “tutto e subito” dell’edonismo imperante, del feticismo degli oggetti indotto dal mercato attraverso il dominio degli spot, quale ritorno alle attività produttive non finalizzate allo spreco, al consumo irrazionale, all’inquinamento, ma aderenti ai bisogni e alle vocazioni di ciascun territorio, potrà esserci?
L’agricoltura di qualità, la valorizzazione del lavoro, del mercato reale, la ricerca scientifica innovativa su materiali ed energia oggi non solo sono possibili, ma già esistono come spazi definiti di eccellenza, che ricorrono a personale altamente qualificato. Le industrie che soffocano, imbruttiscono e immobilizzano le nostre città possono essere riconvertite in un lasso di tempo accettabile.
É possibile costruire nuova occupazione, se si ha il coraggio di potenziare il livello della formazione per costruire una società più vivibile e meno corrotta, e persino per progettare un’Europa dei popoli e della giustizia. Ma, con quale progetto, sin dai primi anni di vita dei cittadini, con quale scuola?