lunedì 22 febbraio 2010

Di un uomo in un fosso

Il raccontino si può leggere in parallelo con la parabola evangelica del buon samaritano, ma senza il finale animato da carità fraterna. Alla luce del contesto attuale vuole dire che siamo combinati piuttosto male, quanto ad aiuti esterni. Sembrano più caritatevoli i lumaconi e addirittura il rospo, a meno che non siano interpretati come arte da un esteta di dubbio gusto. Vuole dire, però, che dobbiamo/possiamo cavarcela da soli. Quanta ironia...

Di un uomo in un fosso. Parabola
Casa Penale di Turi, 17 giugno 1931
Carissima Julca,
ho ricevuto i tuoi foglietti, datati da mesi e giorni diversi. Le tue lettere mi hanno fatto ricordare le novelline di uno scrittore francese poco noto, Lucien Jean, credo, che era un piccolo impiegato in una amministrazione municipale di Parigi. La novella si intitola "Un uomo in un fosso". Cerco di ricordarmela. Un uomo aveva fortemente vissuto, una sera; forse aveva bevuto troppo, forse la vista continua di belle donne lo aveva un po' allucinato; uscito dal ritrovo, dopo aver camminato un po’ a zig-zag per la strada, cadde in un fosso. Era molto buio, il corpo gli si incastrò tra rupi e cespugli; era un po’ spaventato e non si mosse, per timore di precipitare ancora più in fondo. I cespugli si ricomposero su di lui,
i lumaconi gli strisciarono addosso inargentandolo (forse un rospo gli si posò sul cuore, per sentirne il palpito, e in realtà perché lo considerava ancora vivo). Passarono le ore; si avvicinò il mattino e i primi bagliori dell'alba; incominciò a passar gente. L'uomo si mise a gridare aiuto. Si avvicinò un signore occhialuto; era uno scienziato che ritornava a casa, dopo aver lavorato nel suo gabinetto sperimentale. – Che c'è?, domandò. - Vorrei uscire dal fosso, rispose
l'uomo. - Ah, ah! vorresti uscire dal fosso! E che ne sai tu della volontà, del libero arbitrio, del servo arbitrio? Vorresti, Vorresti! Sempre così l'ignoranza. Tu sai una cosa sola: che stavi in piedi per le leggi della statica e sei caduto per le leggi della cinematica. Che ignoranza, che ignoranza! - E si allontanò scrollando la testa tutto sdegnato. Si sentirono altri passi. Nuove invocazioni dell'uomo. Si avvicina un contadino, che portava al guinzaglio un maiale da vendere, e fumava la pipa: - Ah, ah! sei caduto nel fosso, eh! Ti sei ubriacato, ti sei divertito e sei caduto nel fosso. E perché non sei andato a dormire come ho fatto io? - E si allontanò, col passo ritmato dal grugnito del maiale. E poi passò un artista, che gemette perché l'uomo voleva uscire dal fosso: era così bello, tutto argentato dai lumaconi, con un nimbo di erbe e di fiori selvatici sotto il capo, era cosi patetico! - E passò un ministro di Dio, che si mise a imprecare contro la depravazione della città che si divertiva e dormiva mentre un fratello era caduto nel fosso, si esaltò e corse via per fare una terribile predica alla prossima messa. Cosi l'uomo rimaneva nel fosso, finché non si guardò intorno, vide con esattezza dove era caduto, si divincolò, si inarcò, fece leva con le braccia e le gambe, si rizzò in piedi, e uscì dal fosso con le sole sue forze. Non so se ti ho dato il gusto della novella, e se essa sia molto appropriata. Ma almeno in parte credo di sì: tu stessa mi scrivi che non dai ragione a nessuno dei due medici che hai consultato recentemente, e che se finora lasciavi decidere agli altri ora vuoi essere più forte. Non credo che ci sia neanche un po’ di disperazione in questi sentimenti: credo che siano molto assennati. Occorre bruciare tutto il passato, e ricostruire tutta una vita nuova: non bisogna lasciarsi schiacciare dalla vita vissuta finora, o almeno bisogna conservare solo ciò che fu costruttivo e anche bello. Bisogna uscire dal fosso e buttare via il rospo dal cuore.
Cara Julca, ti abbraccio teneramente, Antonio
da Lettere dal carcere di
Antonio Gramsci

giovedì 11 febbraio 2010


Gli agapanti
Non ci sono asfodeli, né viole, né giacinti:
come parlare ai morti?
I morti non sanno il linguaggio dei fiori:
per questo tacciono,
viaggiano e tacciono, patiscono
e tacciono
nel paese dei sogni, nel paese dei sogni.

Se mi metto a cantare, grido,
se grido
gli agapanti m'impongono silenzio
levando una manina di azzurro bambino d'Arabia
o le palme di un'oca nell'aria.

È gravoso, difficile. Non mi bastano i vivi,
primo, perché non parlano,
poi perché debbo interrogare i morti
se voglio andare avanti.
Altro modo non c'è.

Come mi prende sonno
i compagni recidono gli spaghi
d'argento e l'otre dei venti si vuota.
Lo riempio, si vuota, lo riempio, si vuota.
Mi desto
come l'orata che nuota
nei varchi della folgore.
Il vento, l'alluvione, i corpi umani,
gli agapanti confitti come frecce del fato
sulla terra assetata
squassati da spasmi
paiono caricati su un carro vetusto
traballante su strade rotte e selciati vecchi,
gli agapanti, asfodeli dei negri:
come imparare questa religione?

La prima cosa che Dio fece è l'amore
poi viene il sangue
e la sete del sangue
che il seme del corpo come un sale
pungola.
La prima cosa che Dio fece è un lungo viaggio:
e la casa in attesa
con il fumo celeste
con un cane invecchiato che aspetta,
per morire, il ritorno.
Ma bisogna che i morti mi insegnino il cammino.
Sono questi agapanti che li tengono muti
come il fondo del mare o l'acqua nel bicchiere.
E i compagni rimangono nella reggia di Circe
(caro Elpènore. Elpènore, mio povero imbecille!)
o - non li vedi? («Aiuto!») –
sopra la nera cresta di Psarà.

Ghiorghios Seferis (1900-1971). Nel 1942, console a Londra, dopo il crollo militare della Grecia nella II guerra mondiale, segue il governo greco in esilio nel Sud Africa. L'odissea personale di Seferis coincide con quella del suo popolo. L'ultimo verso allude alla sconfitta dei patrioti greci a Psarà da parte dell'Impero Ottomano nel 1824. Gli agapanti, esotici fiori originari dell'Africa meridionale, visti nella terra d'esilio diventano per lui simbolo della violenza bellica, ma anche di un mondo ostile e indifferente al dolore del poeta e di chi soffre per la libertà e per la giustizia. Anche per questo vorrebbe come Ulisse interrogare i morti.

E noi? Chi interrogheremo noi per ritrovare una patria, se i vivi non parlano, se abbiamo perso la strada verso casa?

venerdì 5 febbraio 2010

Approvata la riforma della scuola superiore

Ieri la riforma Gelmini è stata, come era prevedibile, approvata dal Consiglio dei ministri. Entrerà in vigore da quest'anno nelle prime classi del nuovo ordinamento. Non mi dilungo su quanto ho detto precedentemente della riforma, metto in atto invece una mia forma di resistenza civile. Al taglio delle ore, anche nelle classi non soggette alla riforma, all'affermazione del capo del Governo che i ragazzi di oggi non in grado di sopportare più ore di lavoro scolastico impegnativo (viziati o imbecilli,etimologicamente zoppicanti, senza bastone; e ha ragione, dato che anche il governo si impegna a privarli del sostegno indispensabile di una buona educazione)oppongo su questo blog una serie di interventi complessi, adatti a tanti studenti che conosco e rivolti a chiunque abbia il tempo e il desiderio di meditare/medicare (e perdonatemi la fissazione sull'etimologia, il fatto è che la parola è un condensato di storia e di civiltà, non è stata inventata, nè sempre utilizzata per ingannare o imbonire le masse).

Scrive Roberto Mussapi, (22 gennaio 2010, 20° anniversario della morte di Giorgio Caproni, da Avvenire)

Giorgio Caproni con forza straordinaria seppe fare musica dal dolore della seconda guerra mondiale. Fu proprio la guerra, fu il buio a plasmare il suono della sua magnifica poesia, quegli anni di buio e dolore ne resero aspra la voce, forgiandola a quello che sarebbe divenuto un continuo e cangiante concerto per violoncello (Bach), un suono d'arco tagliente e profondo nel silenzio. Musicale quanto altre mai, la voce di Caproni non ha nulla della musicalità di cifra meridionale, felice e splendida dei suoi contemporanei (Quasimodo, Gatto), che è per natura inscindibile dalla malinconia. In Caproni non esiste la sfera della melanconia, ma invece la realtà di un perennemente acceso e vibrante dolore. Bruciante, raschiante, la sua poesia. Con quella lingua unica ed aspra di dolcezze subliminali scrisse un grande libro incessante su quelli che Giovanni Raboni identificò essere i suoi tre temi: la città, il viaggio, la madre. Una triade conclusa e assoluta: la madre rimanda all'origine e alla donna, la città al luogo dove consistere, al teatro del mondo, il viaggio alla natura perennemente mobile, curiosa dell'uomo. In tal senso(…) il suo libro mito fu il magnifico Il passaggio di Enea, scritto fra il 1943 e il 1955, dove la figura di Enea, il viaggiatore esule, appare come ombra nella città di Genova, dove Caproni si trasferì a 10 anni e che amò sempre, prima fisicamente vivendoci, poi, trasferitosi a Roma, come immagine della felicità toccata e perduta. La funicolare, l'incanto di una città sempre in salita, l'ansia del viaggiatore che si muove tra le ombre del porto, creano uno dei massimi libri della poesia italiana del Novecento. Un libro assoluto del viaggio dell'uomo tra tempo e oltretempo, sospeso sulla funicolare come in bilico tra il cielo e la gravità, nelle nebbie di un porto in cui si celano partenze e attracchi.

III Epilogo da Il passaggio di Enea

Sentivo lo scricchiolio,
nel buio, delle mie scarpe:
sentivo quasi di talpe
seppellite un rodio
sul volto, ma sentivo
già prossimo ventilare
anche il respiro del mare.

Era una sera di tenebra,
mi pare a Pegli, o a Sestri.
Avevo lasciato Genova
a piedi, e freschi
nel sangue i miei rancori
bruciavano, come amori.

M'approssimavo al mare
sentendomi annientare
dal pigolio delle scarpe:
sentendo già di barche
al largo un odore
di catrame e di notte
sciacquante, ma anche
sentendo già al sole, rotte,
le mie costole, bianche.

Avevo raggiunto la rena,
ma senza avere più lena.
Forse era il peso nei panni,
dell' acqua dei miei anni.