martedì 1 giugno 2010

Meditando sulla Sicilia


Portella della Ginestra, 1 maggio 2010, 63mo anniversario della strage

Non ci chiediamo a chi risalga la responsabilità dell’eccidio, se a Giuliano, alla mafia, ai servizi segreti italoamericani. Riflettiamo invece sulla nostra realtà siciliana, mentre rievochiamo la giornata della memoria di quest’anno: c’erano molti anziani, tra cui aderenti alle associazioni ANPI, alcune del Nord Italia, molti residenti dei comuni limitrofi, alcuni forse parenti delle vittime; molti giovani, da ogni parte della Sicilia e famiglie intere, con bambini piccoli, anche neonati. I medaglieri delle vittime della Resistenza si mescolavano con le bandiere rosse dei movimenti dei lavoratori (poche quelle di partito) e con quelle gialle, di associazioni cattoliche. Nell’aria una festa composta, quasi pensosa.
Ci viene subito in mente che era festa anche il primo maggio del 1947, quando da Piana degli Albanesi, da S. Cipirello e da San Giuseppe Jato, circa tremila contadini si erano mossi verso Portella della Ginestra con donne e bambini per tentare l’occupazione delle terre incolte, molti a piedi, alcuni a cavallo su giumente e asini. Era festa di speranza in un giorno bellissimo della primavera siciliana. Sui prati a ridosso della montagna aspettavano l’inizio del discorso del segretario di una sezione socialista locale. Alle sue prime parole: «Cari compagni, siamo qui per festeggiare…» una raffica di armi da guerra, dalle prime balze dei monti Pizzuto e Cometa, massacrava 12 innocenti, uomini, donne, bambini: una di 12 anni, una di appena 8. Cinquantuno i feriti. Scriveva pochi anni dopo Carlo Levi: «Mafia e banditi non sono una stranezza, una malattia improvvisa e casuale, né derivata dai singoli caratteri di razza, ma essi stanno, per così dire, in un crepaccio, in una frattura di una terra senza continuità…stanno acquattati in una piega della storia che molte, troppe bandiere, cercano di nascondere. Mancava, è sempre mancata e ancora manca, una classe intermedia: ma tra il popolo contadino e lo “straniero” c’è sempre stato un abisso, un crepaccio, e qui sta acquattata la mafia» (da Le parole sono pietre 1955). Alla luce di quanto è accaduto dopo, dallo stillicidio degli assassini di attivisti o sindacalisti di sinistra, di cui hanno parlato con ampiezza di dettagli storici scrittori come Luigi Pirandello, Carlo Levi, Danilo Dolci, Vincenzo Consolo, fino alle più recenti vittime e martiri eccellenti, nonostante inchieste, arresti, pentiti e processi che durano all’infinito, il crepaccio sembra allargarsi. Questa, però, potrebbe essere solo una delle cause dell’immobilismo e dell’inefficienza dei governi siciliani che da sessant’anni generano disoccupazione, degrado economico e culturale; e forse si potrebbe mettere nel conto anche la strana riuscita di alcuni politici che dalla Sicilia affluiscono al governo nazionale. Ma per capire meglio la passività fatalistica che ancora affligge il popolo siciliano, i suoi intellettuali, i senza lavoro, coloro che cercano lavoro altrove, è indispensabile andare ancora più indietro nel tempo.
Non parliamo dei fatti di Alcara Li Fusi e di Bronte (1860), allorché l’esercito garibaldino stroncò i violenti moti di rivendicazione di terre da parte dei contadini per non compromettere l’unificazione della penisola inimicandosi i ceti dirigenti isolani; ricordiamo, invece, i Fasci siciliani del 1892, organizzazioni pacifiche che in tutta la Sicilia rivendicavano dai proprietari terrieri condizioni più giuste di lavoro e dai grossi industriali siciliani dello zolfo un trattamento più umano nelle miniere. Le manifestazioni pacifiche, fatta eccezione per la rivolta dei minatori di Aragona, dettate dal bisogno estremo, furono represse nel sangue dall’esercito italiano su ordine del ministro siciliano Francesco Crispi. Ancora una volta si mandava l’esercito italiano a sparare sugli inermi, per sedare le paure dell’elettorato, costituito dai grossi proprietari siciliani, solleciti dei loro interessi e preoccupati che il socialismo italiano appena nato, insieme al verbo di Carlo Marx, divenuto subito popolare tra i diseredati, ne fomentasse ulteriormente i fermenti di ribellione. Ma occorre dire, per ritornare al ‘crepaccio’ già da allora aperto, non solo tra il popolo contadino e quelli, tra i siciliani, che considerava di un’altra razza, ma tra la Sicilia e il Nord, che il Partito socialista italiano aveva preso in anticipo le distanze dal movimento dei Fasci siciliani. In quello che allora accadde si riscontra la stessa logica della strage di Portella; la differenza è soltanto che nel 1947 la repressione muoveva da più oscuri intrecci e coinvolgeva il nuovo stato italiano, da poco uscito dalla seconda guerra mondiale per l’intervento degli alleati e la lotta di Resistenza, di fronte a una Sicilia invasa sin dal 1943 dall’esercito alleato con mafiosi italo-americani al seguito e allettata da tentazioni separatiste. Ugualmente forti erano, però, interessi e paure: gli interessi di chi era uscito dalla guerra in grado di gestire capitali, non sempre puliti, e consensi, la paura che il rinnovato interesse per la rivoluzione proletaria, potesse destabilizzare l’assetto di potere cui aspiravano le nuove classi dirigenti, sancito poi dalle elezioni di aprile del 1948. I manuali di storia vi accennano appena, sicché le nuove generazioni, tenute all’oscuro e frastornate nei comportamenti e nei consumi dalla propaganda mediatica, stentano a capire le radici di tanta disaffezione degli adulti nei confronti dell’impegno civico e della difesa dei propri diritti. Molto probabilmente le ignoravano parecchi tra coloro che sfilavano il primo maggio 2010 con bandiere e medaglieri sulla strada percorsa dai braccianti nel 1947 e che si fermavano commossi nel sacrario sobriamente tracciato su quelle montagne tormentate dalla pietà dei conterranei dei contadini massacrati. Certo negli interventi dal palco, che invocavano fermamente il rispetto della Costituzione italiana, nata dal sangue di tanti morti e dal dolore di un’intera nazione, si coglieva una buona consapevolezza della realtà passata e presente. Kikki Ferrara, segretaria della camera del lavoro di Piana degli Albanesi affermava accorata: «Senza giovani questa terra non avrà futuro. Si sta impadronendo di molti la percezione che non c’è più niente da fare, e allora ci troviamo il politico a cui vendere la nostra libertà. Non limitiamoci alle celebrazioni; essere qui è importante, ma se non riusciamo a tenere vivi i valori che hanno animato gli eroi della resistenza e i nostri morti di Portella, loro saranno morti invano fisicamente e noi intellettualmente, moralmente, civilmente». Non si avvertiva acrimonia di partito o di schieramento ideologico, ma la rivendicazione, dai Poteri dello stato, della difesa e della promozione dei grandi diritti collettivi: democrazia, libertà, scuola, lavoro. Di canti, nel piazzale si sentiva, all’inizio, solo l’inno di Mameli cantato dai bambini delle scuole elementari. Sul prato i sorrisi degli altri bambini, alcuni extracomunitari con le mamme, e i loro sguardi intensi a una festa che non erano in grado di capire, ma che cominciava a farsi spazio tra i loro ricordi d’infanzia.